a cura di Avv. Antonello Iasevoli
Cari Amici, la settimana scorsa abbiamo esaminato il delicato ed amorevole atteggiamento di Dante, in occasione del commovente colloquio con Francesca, a quello intercorso, in casa di Simone il fariseo, tra Gesù e la peccatrice; proviamo, ora, a paragonare, sempre con le dovute cautele e differenze escatologiche, il dialogo, tra il Sommo Poeta e la nostra Francesca, ad un’altra pericope evangelica (Lc. 10, 23-37), alla parabola conosciuta come “Il buon samaritano”.
Il Testo biblico dice: “…Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”.
Orbene, analizzando nella loro accezione semantica i verbi sottolineati, notiamo che il primo ed il terzo (passandogli accanto, si fece vicino) trovano la loro forma base nel verbo greco (èrchomai), che significa “andare, venire, giungere, arrivare”; la prefissazione (pros), utilizzata dall’Evangelista, attribuisce alla diversa voce verbale pros-erchomai, un valore aggiunto; esso assume un significato più incisivo, più appropriato e più adatto al contesto narrato; esso indica, segnatamente, l’azione di
”andare incontro”, “andare verso l’altro”, “avvicinarsi”, “essere propensi ad incontrare l’altro”.
Anche, il secondo verbo (ebbe compassione) deriva da una voce verbale greca, (splanchnìzomai), che indica l’azione di “provare una forte emozione”, “provare empatia per l’altro”, “sentire le sofferenze dell’altro”, “provare una commozione viscerale”. In ebraico, volendo risalire al primitivo significato etimologico del verbo, per dire misericordia si usava un termine particolarmente significativo: (rahamim); al plurale esso indicava le viscere, luogo ritenuto il centro delle emozioni e dei sentimenti; al singolare indicava l’utero materno, dove la donna custodisce il frutto del suo amore. Il sentimento che la donna prova per il suo bambino è lo stesso sentimento che Dio prova per l’uomo, Sua creatura.
Infine, la terza forma predicativa (si prese cura di lui), anch’essa di etimologia greca. L’autore sacro avrebbe potuto utilizzare un verbo generico, per indicare detta azione: therapèuo che significa curare una malattia, una ferita, un’infermità; da qui il sostantivo terapia, terapeuta e l’aggettivo terapeutico. Invece, la forma verbale utilizzata è rara, unica e specifica: (epimelèomai) che significa, propriamente, “prendersi cura”, “occuparsi di qualcuno”, “avere a cuore qualcuno”. Il Samaritano, difatti, non si limitò a curare le ferite fisiche di quell’uomo, ma, continuò il suo atto di misericordia, caricandoselo sulle spalle e facendolo, poi, riposare e guarire al caldo di una locanda.
Ebbene, concludendo, Dante (il buon Samaritano) incontra sulla sua strada Francesca; si ferma, la guarda, chiede di parlare con lei, si avvicina, vuole incontrarla, la ascolta, si emoziona, entra in empatia con lei, si commuove, si immedesima nella sua vicenda amorosa, sente la sua sofferenza, ha di lei misericordia, non la giudica, la ama e, idealmente, si prende cura di lei e della sua futura memoria.
A noi lettori del V canto, testimoni di questo atto di amore e di misericordia, il compito di continuare a “prenderci amorevole cura” di Francesca e, con lei, di Paolo, tramandando alle generazioni future la loro meravigliosa e struggente storia di amore.
Vi attendo la settimana prossima, parleremo di ...Ulisse.
Proprietà Letteraria e Diritti riservati.